A New York una grande mostra sulla street art | Artribune

2022-10-22 21:00:41 By : Ms. wei qin hu

Mentre in Italia si battaglia a suon di sfregi, auto-cancellazioni e denunce, a New York la Street Art va ben “oltre la strada”. Ad esempio con una mostra colossale in uno spazio di Brooklyn.

Una volta saltavano sui treni in corsa e si appendevano ai cornicioni dei palazzi, rischiando l’arresto se non la vita per vedere il proprio nome affrescato in coloratissimi caratteri su un vagone o una facciata. Oggi ricevono commissioni da amministrazioni pubbliche, gallerie e boutique di lusso e le loro opere sono diventate un ricorrente segnale di imminente gentrification. La vita e lo status degli street artist sono cambiati parecchio, dagli Anni Settanta a oggi. La mostra Beyond the Streets, in corso a Brooklyn, suggella questa trasformazione, con tutte le contraddizioni del caso. Graffiti e street art sono ufficialmente entrati a far parte dell’arte riconosciuta come tale, apprezzata e celebrata, hanno acquisito rilevanza al punto da influenzare altri generi e alcuni dei nomi storici che un tempo affollavano i muri delle città oggi vendono le proprie opere per migliaia di dollari. Ma i duri e puri esistono ancora e il rapporto con la strada non si è spezzato: da lì si comincia e lì, di tanto in tanto, si torna, perché non c’è street artist che si possa definire tale se non ha nel proprio portfolio un certo numero di pezzi realizzati illegalmente. È questione di credibilità.

Beyond the Streets è una mostra enciclopedica che si muove su questa delicata linea di confine tra passato e presente, tra underground e musealizzazione, partendo dagli esordi della street art per arrivare alla recente glorificazione di questa forma espressiva un tempo demonizzata. Due piani, oltre 9mila mq, 150 artisti tra cui compaiono i nomi più noti e le storie più estreme. Dietro tutto questo c’è Roger Gastman, antropologo urbano e storico della street art, che ha curato l’evento con l’intento di offrire un’ampia panoramica storica e tematica su un genere che sta cominciando a storicizzarsi. La mostra arriva a New York dopo una prima tappa a Los Angeles, ma in questa versione East Coast si presenta con quasi il doppio dello spazio, decine di nuovi pezzi realizzati appositamente per l’evento e un’ampia sezione dedicata alla Grande Mela, dove tutto ebbe inizio. E proprio da qui inizia il viaggio proposto dal percorso espositivo. New York, fine Anni Sessanta, inizio Settanta: armati di pennarelli indelebili, alcuni adolescenti iniziarono a riempire i muri della città con sigle che li identificavano, nomi d’arte, tag. L’idea era semplicemente di esserci, di far apparire il proprio nome nel maggior numero di posti possibile, a cominciare dai muri della scuola, quelli della propria strada, del proprio quartiere. I tag erano spesso l’unione di un nickname e di un numero che identificava la strada in cui il writer viveva. È il caso di Taki 183, che nell’estate del 1970 fu il primo tag a cominciare ad apparire in tutta Manhattan. Dietro quella sigla c’era un ragazzo delle consegne che, per fare qualche soldo in più, teneva per sé quello che il suo datore di lavoro gli dava per il taxi e andava invece a piedi, approfittandone per taggare muri, pali della luce e cassette per le lettere lungo la strada. Taki 183 fu il primo a uscire dai confini di uno specifico quartiere e il suo tag diventò – si direbbe oggi – virale, incuriosendo altri writer della prima ora e diventando presto leggenda.

La mostra racconta anche la storica rivalità tra New York e Philadelphia che da sempre si contendono il primato di città che diede i natali a questa forma espressiva. Già a inizio Anni Settanta Philadelphia era talmente inondata di graffiti che la polizia locale aveva una squadra dedicata alla prevenzione e repressione del fenomeno. Questa forma espressiva al limite del vandalismo attirò l’attenzione di ricercatori della locale università che la identificarono come arte folk e cominciarono a documentare la scena dei writer rendendoli, in qualche caso, vere e proprie celebrità. Poco importa chi fu il primo ad armarsi di pennarello: nel giro di pochi anni i tag iniziarono a riempire i muri delle città e i vagoni della metropolitana, raccontando il bisogno di visibilità di una generazione che non aveva luoghi di aggregazione, né mezzi espressivi. Sia a New York che a Philadelphia, i tag iniziarono ad essere associati con gang di ragazzi di strada che con quei segni identificavano il proprio territorio. E in una New York in crisi e piena di edifici abbandonati, la città diventò una galleria a cielo aperto per centinaia di artisti in cerca di spazi espressivi. La scena della cultura alternativa di downtown Manhattan non tardò ad accorgersi di questa nuova estetica, facendola propria e promuovendone le espressioni più spontanee, in opposizione al sistema istituzionale dell’arte e alle intellettuali ed elitarie gallerie di Soho.

I writer cominciarono ad andare oltre il semplice tag a pennarello e a creare composizioni a spray dal lettering elaborato. Uno dei primi e più riconoscibili fu Blade, che già nel ’72 cominciò ad affrescare i vagoni dei treni. Nel corso degli anni arrivò a decorarne più di 5mila, guadagnandosi l’appellativo di King of Graffiti, mentre oggi dipinge su tela conservando l’estetica degli Anni Settanta. Sono tanti gli artisti oggi celebri che emersero da quell’humus. In mostra troviamo per esempio alcuni degli shadowmen di Richard Hambleton, uno dei chiodi di pelle decorati da Keith Haring e alcuni disegni di Jean-Michel Basquiat, che iniziò la sua carriera come street artist, all’interno del duo artistico noto con il nome Samo. Il suo partner di allora, Al Diaz, oggi è ancora un writer che ha scelto di tornare alle scritte a spray e alcune delle sue composizioni appaiono in diversi punti dei due piani dell’esposizione.

Una mostra che racconta un’arte che usa i muri come tele non può, per definizione, essere una mera raccolta di opere. Beyond the Streets non si limita infatti a mettere in mostra quello che gli street artist hanno realizzato nel corso degli anni, bensì racconta il contesto in cui quel tipo di estetica è nata, cresciuta e si è diffusa al punto da diventare identificativa di un’epoca. In quest’ottica ha decisamente senso la parte della mostra dedicata ai Beastie Boys, band che emerse proprio da quella cultura e contribuì a renderla popolare. Fin dagli esordi, la band ha sempre collaborato con diversi street artist facendo disegnare il proprio logo da artisti come Eric Haze e Cey Adams. Quest’ultimo ha riprodotto per la mostra il suo graffito del logo realizzato per Cooky Puss (1983), immortalato in una famosa immagine promozionale dell’album. Nella sezione sono inoltre in mostra strumenti musicali, stereo, dischi, fotografie, copertine, locandine che offrono uno scorcio del dietro le quinte di una band iconica. Seguendo la stessa filosofia di contestualizzazione di un fenomeno, in un angolo della mostra troviamo una riproduzione di uno di quei negozi di dischi i cui muri e scaffali erano completamente tappezzati di tag e adesivi, uno spazio familiare per chiunque sia nato nello scorso millennio. All’interno ci sono dei piatti su cui i visitatori possono ascoltare gli album esposti, parte della collezione personale del curatore.

La mostra è immensa e il percorso espositivo lascia il visitatore libero di creare i propri passaggi, collegamenti e rimandi, pur delineando un’evoluzione cronologica e tematica. La sezione Freight Trains riconduce le origini di una graffiti art ante litteram al hobo code, una serie di simboli utilizzati dai vagabondi che attraversavano l’America saltando sui treni merci per scambiarsi messaggi utili alla sopravvivenza. Già allora i treni erano usati come veicoli di comunicazione e oggi esistono artisti come Buz Blurr e Bill Daniel che attingono a quella tradizione e allo stesso tempo creano lavori che entrano a pieno titolo nella definizione di street art. Mentre fa un percorso inverso Tim Conlon, che riporta porzioni di graffiti realizzati sui treni sulla tela. Con la sezione The After School si arriva agli Anni Novanta quando la street art, dopo aver vissuto un momento di oblio, tornò alla ribalta. Il merito di questa rivitalizzazione fu soprattutto del gruppo di artisti The After School, che lavorarono per far uscire l’arte dalla scatola bianca delle gallerie e riportarla in strada. C’è anche una sezione dedicata alla West Coast dove la street art  ha sviluppato una sua specifica estetica, influenzata dalla cultura del surf e da quella delle gang, creando un particolare mix di influenze dai toni accesi. Nella sezione New Pop troviamo lavori che vivono nella linea di intersezione tra la pop art e la street art, in un caustico mix di critica culturale e sociale. Le opere in mostra escono dalla bidimensionalità e creano spazi densi di simboli contemporanei, come nella riproduzione del sex club di Lady AIKO o nell’installazione con i pupazzi nata dalla collaborazione tra BAST e Paul Insect.

Al secondo piano della mostra la street art raggiunge la maturità, sposando l’attivismo politico e intraprendendo le vie della figurazione. La sezione Activism racconta esperienze di utilizzo dei mezzi, dei codici e delle modalità dell’arte della strada per produrre opere dal forte contenuto politico e sociale. Tra i pionieri ci furono le Guerrilla Girls, che già all’inizio degli Anni Ottanta sfidavano il sistema dell’arte con lavori fortemente provocatori. Oggi ci sono artisti come Nina Chanel Abney che portano avanti quella lotta attraverso codici visivi frutto della contemporaneità. Il rapporto con il suo tempo è nella natura stessa della street art che è arte di invenzione, di Do It Yourself, fatta da creativi che sanno produrre i propri strumenti e trovare soluzioni inedite. Questo approccio è illustrato nella sezione Innovation, all’interno della quale troviamo artisti come Invader (di cui è esposta un’opera in video), KATSU e Felipe Pantone. Anche nel recente avvicinamento della street art alla figurazione si osserva una continua ricerca di metodi e tecniche innovative, come nel lavoro di Swoon, qui inclusa nella sezione Figurative. Questo piano della mostra si conclude con una sezione dal titolo Beyond, dedicata alla street art asiatica e due sale a marchio Obey, l’ormai popolarissimo sticker creato da Shepard Fairey e diventato brand, di cui qui viene ricostruita e contestualizzata la storia.

Portare la street art dentro quattro mura non è impresa facile e non è detto che l’operazione funzioni o che abbia senso. Visitando Beyond the Streets si ha una costante sensazione di contraddizione, eppure un senso lo si vede e lo si sente. È nella contestualizzazione, nello sguardo storico, nel dare credito dove quel credito sta ma per anni è rimasto sepolto sotto strati e strati di spray. A tratti Beyond the Streets confonde e disorienta, spesso diverte e a ogni passo colpisce in faccia, come un’esplosione di colore sul cemento.

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